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Parti comuni dell’edificio: come capire quali sono?

Quando parliamo di beni comuni in condominio ci riferiamo alla categoria di aree, elementi strutturali e vani in comproprietà fra tutti i condomini. Saper distinguere queste parti è fondamentale, perché è proprio qui che nasce la maggior parte delle controversie fra proprietari. Parliamo di ripartizione delle spese per la loro manutenzione, possibilità di usufruirne da parte di tutti ma anche libertà dei singoli di intervenire con eventuali modifiche. Alcuni beni condominiali sono facilmente identificabili come comuni, per altri, la definizione è meno intuitiva. Vediamo in che modo è possibile capire quali sono le parti comuni dell’edificio condominiale.

Partiamo, come sempre, dal testo normativo di riferimento, il Codice Civile. L’articolo dedicato alle parti comuni dell’edificio condominiale è il 1117. Qui si fornisce una descrizione dei beni comuni e di come vadano gestiti, con annesso elenco. Specifichiamo subito, però, che l’elenco riportato è volutamente esemplificativo, e non esaustivo né tassativo. Dunque elementi non esplicitamente inseriti nell’articolo possono benissimo rientrare fra le parti comuni. Viceversa, è possibile che in casi particolari un titolo dimostri la proprietà esclusiva o privata di uno degli elementi elencati.

In generale, quando si parla di beni comuni ci si riferisce a una situazione di presunzione di condominialità. Ovvero, un elemento esplicitamente elencato nell’articolo 1117 o avente un carattere “comune” è presunto in comproprietà «se non risulta il contrario dal titolo». Per “titolo” si intende qualsiasi atto capace di dimostrarne la proprietà non comune. Ad esempio, un contratto di compravendita. Oppure un lascito testamentario. O, ancora, un esplicito riferimento inserito nel regolamento contrattuale.

Si esclude, in ogni caso, che un titolo possa derogare alla comproprietà di un elemento necessariamente condiviso come, ad esempio, le scale di un palazzo o le sue fondamenta. Da cosa si evince, quindi, il carattere “comune” di un elemento non espressamente indicato nel Codice Civile?

Articolo 1117 e parti comuni dell’edificio: come si individuano

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Per comprenderlo, è necessario analizzare quanto indicato dal legislatore. Nell’articolo 1117 sono descritte tre macro-categorie di elementi per i quali vige la presunzione di condominialità.

  • Innanzitutto, le «parti dell’edificio necessarie all’uso comune». Si tratta degli elementi strutturali, come scale, portoni d’ingresso, fondamenta, colonne, facciata, tetto e lastrico solare. Per quanto riguarda questi ultimi, è possibile che un titolo ne conferisca parte della proprietà a un singolo. In tal caso, non viene meno però la funzione “comune” del tetto, che funge da copertura per tutti i condomini al di sotto della sua verticale effettiva. La ripartizione delle spese per un lastrico solare ad uso esclusivo terrà dunque conto di questa duplice natura.
  • In secondo luogo, i «locali per i servizi in comune». Parliamo quindi di parcheggio, portineria, lavanderia, sottotetti che non presentino diverso titolo.
  • Infine, rientrano fra le parti comuni dell’edificio anche «opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all’uso comune». In questo ampio insieme rientrano tutti quegli elementi accessori ma funzionali a tutti i proprietari, come l’ascensore, gli impianti idrici e fognari, le cisterne, ma anche i sistemi per la trasmissione di segnali radiotelevisivi, energia elettrica e gas. Riguardo questi impianti, lo status di bene comune si estende ai «relativi collegamenti fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini».
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Cosa comune in condominio: uso e gestione

Le norme civilistiche relative al condominio sono contenute all’interno del Libro III della Proprietà, più nello specifico nel Titolo dedicato alla Comunione. Questo spiega i rapporti di proprietà che caratterizzano i proprietari di un’unità immobiliare in condominio. Ciascuno ha un diritto reale esclusivo sul proprio appartamento, risultante dagli atti di compravendita, di lascito o di usucapione. Al contempo, le aree comuni dell’edificio sono in comproprietà fra tutti i condomini. Si tratta della cosiddetta cosa comune in condominio: che uso se ne può fare e quali sono i principali limiti imposti dalla legge?

Trattandosi di una comunione, è necessario che tutti abbiano rispetto di queste aree comuni, in base a due principi fondamentali sanciti nell’articolo 1102 del Codice Civile. Innanzitutto, ciascuno può servirsi della cosa comune. È dunque illegittimo impedire a un condomino di avere accesso a un’area o di usufruire di un bene in comproprietà (fanno eccezione i regolamenti contrattuali di cui parleremo più avanti). Questo utilizzo è però sottoposto a due condizioni. Il condomino non può:

  • Alterare la destinazione d’uso della cosa comune.
  • Estendere il proprio diritto a danno degli altri partecipanti: ciascuno deve poterne fare «parimenti uso».

Da questi semplici principi derivano interi corollari di norme su cosa si può fare e cosa non si può fare in condominio. Ad esempio, si parla spesso di miglioramento della cosa comune. Ciascuno ha il diritto di intervenire, anche a proprie spese, per il miglior godimento di un bene comune, purché non ne modifichi la destinazione d’uso o non ne limiti l’utilizzo degli altri. Se si tratta di interventi di piccolo conto, come ad esempio l’abbellimento di un’aiuola condominiale, non è necessaria nemmeno l’autorizzazione assembleare. A questo punto, se gli altri condomini vorranno acquisire il miglioramento fatto da un proprietario dovranno rimborsargli le spese.

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Uso della cosa comune in condominio

Un punto sul quale è già intervenuta più volte la giurisprudenza riguarda la nozione di pari uso. Essa non va intesa come un uso perfettamente identico. Ad esempio, è normale che un condomino che abita al quarto piano utilizzi l’ascensore maggiormente rispetto a un inquilino del primo piano. Un uso “più intenso” della cosa comune in condominio non impedisce, comunque, che tutti gli altri possano potenzialmente farne un uso altrettanto intenso.

Ricordiamo anche che esistono delle ulteriori limitazioni alle modifiche che un singolo può fare alla cosa comune in condominio. Parliamo, innanzitutto, di limiti strutturali: nessuna modifica può in alcun modo compromettere la stabilità dell’edificio. Allo stesso tempo, non è possibile danneggiare il decoro architettonico del palazzo. Questo ne comprometterebbe infatti anche il valore economico e costituirebbe quindi un danno per gli altri proprietari.

Infine, come accennato, il regolamento assembleare tradizionale non può limitare l’utilizzo della cosa comune o menomare i diritti dei condomini in tal senso. Costituisce un’eccezione il regolamento contrattuale, ossia quel codice le cui clausole vengono singolarmente messe ai voti e approvate con l’unanimità. Dunque, anche con il consenso esplicito dei condomini che ne deriverebbero un danno.

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Unità con più comproprietari: come cambia la maggioranza assembleare?

All’interno dell’assemblea condominiale le delibere vengono approvate con maggioranze ben definite che variano in base all’oggetto della votazione. Dato che non sempre è possibile la partecipazione fisica di tutti i proprietari, si ammette che i condòmini possono delegare la propria presenza e, quindi, il proprio voto, a un altro soggetto. Cosa succede però al calcolo della maggioranza, quando un soggetto sia comproprietario insieme ad altri di un’unità nello stesso condominio? Una sentenza del Tribunale di Verona chiarisce la problematica della maggioranza assembleare con dei comproprietari di una sola unità.

La sentenza del 15/10/2019 ci indica l’interpretazione corretta dell’articolo 1136 del Codice Civile, fornendo una risposta chiara al quesito sollevato in merito alle maggioranze assembleari. La norma civilistica prevede nello specifico delle maggioranze specifiche che possono subire delle variazioni in base all’oggetto in discussione o al fatto che si tratti della prima o della seconda convocazione. Ad ogni modo, la giurisprudenza ha interpretato questo articolo sul principio di una proprietà, un voto.

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Una lettura che si può riassumere così: ciascun partecipante all’assemblea può contribuire con un solo voto. Così, il voto di due comproprietari di una stessa unità abitativa vale per uno. Allo stesso modo, il proprietario di più vani all’interno dello stesso condominio potrà esprimere un unico voto. Questo, in ragione del fatto che saranno poi le tabelle millesimali a tener conto della proporzionalità della proprietà sul quorum richiesto.

La maggioranza assembleare con i comproprietari di un’unità

Tale interpretazione trova forza anche nelle disposizioni attuative del CC. All’articolo 67 si afferma esplicitamente che più comproprietari di una singola unità abitativa debbano eleggere il proprio rappresentante in assemblea che, esprimendo un unico voto, farà le veci anche degli altri. In tal modo, la maggioranza assembleare con dei comproprietari di una sola unità non risulterà “falsata” dalla condivisione di più soggetti.

La sentenza citata conferma l’attuazione di questo principio. Si precisa inoltre che il proprietario di più unità all’interno dello stesso condominio debba in ogni caso votare come singolo. Infine, il Tribunale ha specificato che un difetto di delega può essere impugnato solo dal comproprietario che non riconosca la figura in sua rappresentanza, e non dal resto dell’assemblea.